Resilienza (Supply Chain)

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Di Joannes Vermorel, gennaio 2023

La resilienza, da una prospettiva supply chain, è la capacità di un’azienda di mitigare eventi sistemici negativi non pianificati (o shock) che mettono in pericolo il flusso commerciale di merci fisiche. Questi shock possono verificarsi quando un’azienda perde la capacità di servire le merci (a causa di un evento negativo nella fornitura) oppure quando perde i clienti delle merci (a causa di un evento negativo nella domanda). La resilienza si caratterizza anche per la capacità dell’azienda di tornare allo stato di flusso precedente una volta terminato lo shock. In generale, la resilienza è una caratteristica di sopravvivenza auspicabile per un’azienda, sebbene in assenza di shock la resilienza rappresenti uno svantaggio competitivo in quanto comporta una serie di costi.

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Storia

Il termine resilienza fu introdotto circa due secoli fa da una prospettiva di resistenza dei materiali. In “The Concept of Resilience”1, Alastair McAslan riassume la sua origine:

Il termine resilienza fu introdotto nella lingua inglese all’inizio del XVII secolo dal verbo latino “resilire”, che significa rimbalzare o ritirarsi (Concise Oxford Dictionary, Decima Edizione). Non ci sono prove dell’uso del termine resilienza in alcun lavoro accademico fino a quando Tredgold (1818) lo introdusse per descrivere una proprietà del legno, e per spiegare perché alcuni tipi di legno fossero in grado di sopportare carichi improvvisi e gravosi senza rompersi.

La comprensione del termine “resilienza” rimase prevalentemente legata alla sua origine nella “resistenza dei materiali” fino alla seconda metà del XX secolo, quando il termine fu ampiamente riadattato per chiarire alcune qualità astratte attribuite ai sistemi: organismi, ecosistemi, comunità, organizzazioni, ecc.

Fin dai primi anni 2000, il termine ha guadagnato notevole popolarità, come illustrato dai dati di ricerca di Google Trends per “resilienza” (come mostrato in Figura 1).

Dati di Google Trends per resilienza

Figura 1 Dati di Google Trends per “resilienza”, reperiti a dicembre, 2022.

I lockdown su larga scala degli anni 2020, che hanno interrotto (e in alcuni paesi continuano a interrompere) numerose supply chain, hanno provocato lievi picchi di interesse generale per il termine, ma questi non hanno fondamentalmente alterato la sua costante ascesa alla ribalta.

Dal punto di vista più specifico della supply chain, nei primi anni 2000, una serie di fornitori hanno iniziato a promuovere soluzioni per supply chain resilienti, ridefinendo implicitamente la resilienza attraverso le lenti delle proprie soluzioni. A questo proposito, la resilienza illustra la pratica consolidata (e dubbia) - tra i fornitori enterprise - di riproporre vecchi prodotti e servizi con una nuova parola d’ordine ogni paio d’anni.2

Una prima panoramica della resilienza della supply chain

Il qualificatore ‘resiliente’, quando applicato a una supply chain, deve essere reso ragionevolmente specifico e preciso; altrimenti, questo qualificatore degenera in ciò che equivale a un sinonimo di supply chain ‘superiore’. Al contrario, una definizione in extenso tramite un breve elenco di esempi di eventi negativi (ad es., lockdown) non è sufficiente a rendere questo concetto degno di interesse per un professionista della supply chain.

Proponiamo di definire la resilienza come la capacità - per l’azienda e la sua supply chain - di mitigare eventi sistemici negativi non pianificati, semplicemente indicati in seguito come shock. Questa definizione esclude volutamente intere classi di eventi negativi.

Ad esempio, un stockout non è uno shock. È un evento negativo non pianificato, ma gli manca l’aspetto ‘sistemico’. Uno stockout è un problema locale, se non in senso geografico, almeno da un punto di vista dell’offerta o del merchandising. L’inflazione, come secondo esempio, non è nemmeno uno shock. Si tratta di un evento sistemico negativo, che impatta in modo ampio sull’azienda, sui suoi clienti e sui suoi fornitori, ma è in gran parte un evento pianificato: l’inflazione è il risultato di un aumento della massa monetaria, e le banche centrali non sono esattamente riservate in questo senso.

L’elemento sorpresa è, dunque, negli occhi di chi guarda. Camminando con le mani sugli occhi, un uomo che urta un albero può maledire l’evento per essere “non pianificato” nel suo percorso, ma ciò è comunque il risultato di un’azione intenzionale (egli scelse di coprirsi gli occhi e invitò la possibilità di uno shock). Dal punto di vista della supply chain, gli shock dovrebbero riferirsi solo a quegli eventi che sfidano l’anticipazione, almeno considerando i metodi e le tecnologie disponibili sul mercato.

Allo stesso modo, la natura sistemica di uno shock dipende dall’organizzazione in questione. Per esempio: un negoziante che perde il suo unico punto vendita a causa di un incendio ha pieno diritto di considerare tale evento uno shock per il suo business retail. Al contrario, una grande catena retail potrebbe considerare lo stesso evento come un impedimento minore al raggiungimento dell’obiettivo trimestrale successivo. Pertanto, un evento è qualificato come sistemico quando impatta una parte consistente (e significativa) di un sistema, in questo caso una supply chain, con effetto immediato.

Per quanto riguarda gli shock, dal punto di vista della supply chain, esistono due ampie categorie: shock dalla fornitura e shock dalla domanda.

Gli shock dalla fornitura mettono a rischio la capacità continua di servire le merci fisiche. Gli shock dalla fornitura possono derivare sia da forze esterne sia interne; nel caso dei primi, disastri naturali (come un’alluvione) o disastri causati dall’uomo (come una guerra) possono scossonare seriamente il flusso di merci di un’azienda; per quanto riguarda i secondi, uno sciopero aziendale o un crollo del sistema IT possono provocare uno shock altrettanto grave.

Gli shock dalla domanda mettono a rischio l’interesse continuo del mercato per le merci offerte dall’azienda. Questi shock sono solitamente causati da una marcata degradazione dell’immagine pubblica dell’azienda a seguito di un incidente (come il disastro aereo per una compagnia aerea) o di uno scandalo (ad esempio, una frode aziendale).

In sintesi, la resilienza si riferisce non solo alla capacità dell’azienda di mitigare le conseguenze negative immediate di uno shock, ma anche alla sua capacità di tornare allo stato precedente delle cose. La resilienza è, per definizione, una proprietà relativamente auspicabile per un’azienda, poiché ne aumenta le probabilità di sopravvivenza in tempi turbolenti. Tuttavia, in pratica, la resilienza quasi invariabilmente ha un costo, in quanto l’azienda si prepara ad affrontare tipologie di shock che possono o meno verificarsi.

Il percorso verso la resilienza

Esistono due ampie strade per rendere una supply chain più resiliente. La prima, trasformare eventi non pianificati in eventi pianificati. La seconda, trasformare eventi sistemici in eventi localizzati. Discuteremo entrambe le strade in maggiore dettaglio, ma prima un avvertimento: non esiste un pasto gratuito qui. La resilienza, come la maggior parte delle caratteristiche desiderabili per un’organizzazione, si raggiunge attraverso un compromesso. Inoltre, esistono numerosi processi errati e tecnologie inadeguate che introducono fragilità accidentali in una supply chain. Tuttavia, la resilienza tipicamente non è il rimedio appropriato per queste classi di problemi, in quanto esse impattano negativamente la supply chain anche in assenza di shock, perciò il negative knowledge 2 è una prospettiva più adatta per affrontare queste fragilità accidentali.

Da non pianificato a pianificato

Trasformare eventi non pianificati in eventi pianificati non è per nulla un’idea nuova. Richiama il vecchio principio di sperare per il meglio mentre ci si prepara al peggio. Più specificamente, dal punto di vista della supply chain, la maggior parte delle variazioni di flusso in arrivo (domanda variabile, lead times variabili, prezzi variabili) possono essere anticipate ma non con precisione, soprattutto quando si tratta di variazioni acicliche improvvise3.

Probabilistic forecasting rivede la prospettiva della previsione con un’ambizione diversa: invece di tentare di eliminare l’incertezza associata, l’obiettivo diventa modellare e quantificare l’incertezza stessa. Probabilistic forecasting apre la strada a tecniche di ottimizzazione stocastica4 che vengono utilizzate per calcolare decisioni con aggiustamento per il rischio. Le decisioni con aggiustamento per il rischio rendono la supply chain più resiliente perché tali decisioni orientano l’azienda lontano dai peggiori scenari. In pratica, calcolare decisioni con aggiustamento per il rischio richiede anche una prospettiva finanziaria sulla supply chain. Questa prospettiva finanziaria viene utilizzata per definire la loss function per l’ottimizzazione stocastica.

Le decisioni con aggiustamento per il rischio sono solitamente più conservative e quindi meno efficienti, rispetto a decisioni che ignorano completamente il rischio. Ad esempio, un ordine di riapprovvigionamento di inventario con aggiustamento per il rischio potrebbe rinunciare a un obiettivo di price break - associato a una grande quantità minima d’ordine (MOQ) - poiché esiste una piccola probabilità che la domanda collassi lasciando all’azienda una significativa svalutazione dell’inventario. Mancare il MOQ è il prezzo da pagare per mitigare l’eventuale impatto di uno shock dalla domanda.

Le decisioni con aggiustamento per il rischio offrono una via verso una maggiore resilienza della supply chain mantenendo la trasformazione in gran parte reversibile. In pratica, equivale a incentivare (usato qui nel senso dell’economia comportamentale) tutte le decisioni quotidiane banali, senza alterare in modo fondamentale né l’azienda né la sua supply chain.

Se l’azienda è disposta a considerare trasformazioni più strutturali, allora può rendersi più resiliente rendendo intenzionalmente numerosi asset della supply chain più versatili di quanto sia necessario – almeno nelle normali circostanze. Per esempio:

  • Alcune aziende francesi addestrano i loro dipendenti impiegatizi a integrare la forza lavoro operativa in caso di sciopero 5. Poiché gli scioperi impattano in modo sproporzionato questi ultimi, l’azienda può mitigare uno sciopero ridistribuendo temporaneamente una grande parte della sua forza lavoro per coprire le posizioni vacanti. Qualora si verificasse uno sciopero, l’azienda posticipa processi impiegatizi importanti, ma non urgenti (come contabilità, marketing, legale, ecc.). Così si ottiene la resilienza a spese di una produttività ridotta per questi lavoratori impiegatizi, poiché devono essere formati per compiti che normalmente non eseguono, e, per l’azienda, i processi di ordine superiore sopra menzionati non vengono soddisfatti per tutta la durata dello sciopero.

  • L’esercito statunitense adotta motori diesel per quasi tutti i suoi veicoli terrestri, comprese le piccole auto e le motociclette – i motori diesel essendo una rarità relativa rispetto alle loro controparti civili. Utilizzando un unico tipo di carburante, l’esercito statunitense elimina intere classi di problemi logistici. Inoltre, ciò crea la possibilità, in situazioni di emergenza, di trasferire carburante da un veicolo a un altro. Si ottiene resilienza, ma a spese di altri fattori, tipicamente un prezzo più alto per i motori nella maggior parte dei piccoli veicoli.

Le trasformazioni possono quasi sempre essere viste come un compromesso in cui l’azienda - e la sua supply chain - accetta una minore efficienza quotidiana per ottenere un’efficienza maggiore - ma comunque degradata - in caso di shock.

Da sistemico a localizzato

La trasformazione di eventi sistemici in eventi localizzati avviene frequentemente attraverso la diversificazione, l’integrazione verticale o la consolidazione. La diversificazione può essere applicata sul lato della domanda, ampliando la gamma di prodotti o indirizzandosi a nuovi mercati (ad es., diversi paesi). Le diversificazioni sul lato della domanda che migliorano la resilienza tendono a essere quelle che non introducono sinergie. Ad esempio, vendere un prodotto complementare allo stesso segmento di mercato non può rendere un’azienda più resiliente a uno shock dalla domanda che impatta proprio su tale segmento. La diversificazione può essere eseguita anche sul lato della fornitura, sfruttando fornitori che possiedono capacità ed offerte sovrapposte. Questa diversificazione sul lato della fornitura viene solitamente realizzata a scapito delle economie di scala e aumenta la complessità operativa complessiva.

L’integrazione verticale può essere utilizzata per eliminare gli shock su entrambi i lati, domanda e fornitura. Un produttore può acquisire un rivenditore per assicurarsi un canale di vendita, mitigando così gli shock dalla domanda, poiché il produttore non verrà rimosso dal proprio canale retail. Al contrario, un rivenditore può acquisire un produttore per garantire la propria fornitura, mitigando così alcuni shock della fornitura, come quando il produttore stipula un accordo di distribuzione esclusiva con un concorrente. Col tempo, l’integrazione verticale tende a rendere il fornitore interno meno competitivo rispetto alle controparti esterne6.

La consolidazione, solitamente realizzata attraverso operazioni di M&A (fusioni e acquisizioni), è una delle strade più “facili” verso la resilienza. Fondendo entità che prima erano concorrenti, la nuova azienda beneficia di una pressione competitiva ridotta, sia dal lato della domanda che da quello della fornitura. La concorrenza è una fonte principale di shock per le aziende, poiché i concorrenti possono innescare guerre di prezzo (shock dalla domanda) e stipulare accordi esclusivi con i fornitori (shock dalla fornitura). Il principale svantaggio della consolidazione è che solitamente comporta diseconomie di scala, rendendo l’azienda ancora più vulnerabile a interruzioni di mercato su larga scala.

Il limite superiore di questo approccio sembra essere il raggiungimento dello status di too big to fail, dove la preservazione dell’azienda diventa una questione politica, trasferendo il peso della sopravvivenza dell’azienda dai suoi azionisti originari ai contribuenti.

Stratagemmi della resilienza

Nella supply chain, non esiste soluzione senza un’agenda da parte del fornitore7. Se da tempo si osserva che i fornitori enterprise ripropongono vecchi prodotti e servizi per abbinarsi all’ultima parola d’ordine o tendenza, sembra che dal 2020 molte di tali soluzioni abbiano acquisito anche la preternaturale capacità di rendere le supply chain più resilienti. Vale la pena dedicare un’intera sezione a sfatare alcune delle affermazioni più dubbie8. In nessun ordine particolare:

Le affermazioni di un ROI positivo sono altamente discutibili, in quanto quasi tutte le azioni correttive che rendono l’azienda più resiliente la rendono anche meno efficiente9. Dopo uno shock, è possibile ipotizzare quanto la situazione sarebbe peggiorata senza le azioni correttive proattive, ma per progettazione, le misurazioni dirette sono impossibili.

Supply chain visibility e visibilità in tempo reale non fanno molto per quanto riguarda la resilienza. Gli shock non sono esattamente fenomeni sottili che sfuggono alle misurazioni “basic”. Tra tutti gli shock elencati nella prima sezione, nessuno di essi può essere mitigato tramite una visibilità più dettagliata dello stato della supply chain. Sebbene la supply chain visibility sia desiderabile – infatti, strumentale in numerose ottimizzazioni della supply chain — questa problematica è in gran parte indipendente dalla resilienza.

Workflows, per design, aumentano l’efficienza di un’azienda, riducendone l’agilità. Infatti, un workflow ancora l’azienda nei suoi metodi e modalità, rendendola più resistente al cambiamento. Pertanto, l’idea che l’aggiunta di un workflow supportato da software aumenterà la resilienza è un’affermazione straordinaria che richiede prove straordinarie.

Le tecnologie AI (artificial intelligence), a partire dal 2022, rimangono decisamente di natura statistica, almeno per le varianti mainstream di AI, come deep learning. La maggior parte degli shock sistemici dovrebbe risultare senza precedenti, pertanto le aziende non dovrebbero aspettarsi di rilevarli nei loro dati storici (o in quelli del mercato rilevante). Certo, le analisi statistiche hanno un valore inconfutabile per la supply chain, tuttavia, l’ipotesi che esse (nelle loro attuali iterazioni) possano prevedere e/o mitigare gli shock è o delirante o una grossolana errata interpretazione di AI10.

La resilienza è, per sua natura, difficile da vendere, in quanto ci si aspetta che riduca la redditività dell’azienda nel breve e medio termine, aumentando al contempo le probabilità di sopravvivenza a lungo termine. Qualsiasi soluzione che prometta un “pasto gratis” in termini di resilienza – raggiungendo presumibilmente guadagni su tutti i fronti – è (molto) probabilmente troppo bella perché sia vera.

Mentre uno scetticismo eccessivo ritarda l’innovazione, uno scetticismo sano è necessario per evitare catastrofi IT frequentemente associate all’adozione sconsiderata di tecnologie e processi guidati da parole d’ordine.

Oltre la resilienza

L’opposto intuitivo della “resilienza” sembra essere la fragilità. Mentre un’azienda resiliente mitiga gli effetti negativi associati a uno shock, un’azienda fragile li accentua, amplificando di fatto lo shock. Tuttavia, Nassim Taleb, nel suo libro “Antifragile: Things That Gain from Disorder”11, propone un’alternativa radicale. Egli sostiene che la differenza tra fragilità e resilienza è solo una questione di grado, poiché gli shock rimangono rigorosamente dannosi, indipendentemente dal fatto che il sistema venga considerato fragile o resiliente.

Così, Taleb introduce l’antifragilità come una proprietà astratta che caratterizza i sistemi capaci di migliorarsi sotto shock. Taleb non solo dimostra che i sistemi antifragili esistono, ma propone anche che, a lungo termine, sia i sistemi fragili che quelli resilienti alla fine vengano sostituiti da sistemi antifragili. I sistemi fragili vengono sostituiti più rapidamente di quelli resilienti, ma alla fine, anche i sistemi resilienti vengono sostituiti.

Da una prospettiva della supply chain, un’azienda antifragile non dovrebbe semplicemente mitigare gli shock, ma sfruttarli attivamente per superare la concorrenza. Tuttavia, non è chiaro che un qualsiasi grado di antifragilità possa essere raggiunto dalla supply chain in itself. L’antifragilità, nelle aziende, riflette soprattutto un atteggiamento imprenditoriale orientato al rischio, che non può essere confinato in modo significativo a una singola divisione (per quanto grande possa essere) come la supply chain. Inoltre, l’antifragilità è ancora più difficile da vendere della resilienza poiché generalmente comporta l’assunzione di maggiori rischi – non solo l’accettazione di un’efficienza ridotta, come avviene per la resilienza – nel breve termine per aumentare le probabilità di sopravvivenza a lungo termine.

L’approccio di Lokad

La visione mainstream della supply chain12 – sia la teoria che i suoi avatar software – esclude del tutto il rischio. Essa rende la supply chain fragile by design. Fattori banali, ampiamente prevedibili e volatili (ad es., tempi di consegna variabili, fluttuazioni dei prezzi delle materie prime, livelli di clientela, tassi di abbandono dei fornitori, ecc.) non sono nemmeno presi in considerazione. L’unica fonte di incertezza ritenuta degna di un’analisi statistica è la domanda futura, e anche essa viene affrontata con previsioni time-series puntuali, che escludono l’incertezza. Le analisi statistiche orientate alle medie incarnano l’atteggiamento prepararsi al meglio, ignorare il peggio. Inoltre, gli obiettivi di ottimizzazione, espressi in percentuali (ad es., service level, fill rate, MAPE), escludono anche il rischio, anche quando questo rischio è banale e ripetitivo. Le piccole inconvenienze vengono accorpate a quelle maggiori, ma semplici percentuali non riflettono la vera entità dei problemi che l’azienda deve affrontare.

Rendere una supply chain resiliente è un compito arduo, ma non può eludere la quantificazione del rischio e dell’incertezza. Il Quantitative Supply Chain Manifesto è stato introdotto da Lokad nel 2017, anni prima che “supply chain resilience” diventasse una parola d’ordine. A livello tecnico, esso enfatizza le previsioni probabilistiche come alternativa guidata dall’incertezza alle previsioni puntuali. Sottolinea anche i driver economici come alternativa guidata dal rischio ai KPI espressi in percentuali. Infine, poiché la resilienza è una proprietà sfuggente, questo manifesto propone un meccanismo semplice per ottenere un miglioramento approfondito della supply chain: liberare la capacità gestionale13, poiché combattere continuamente gli incendi è antitetico a qualsiasi seria e trasformativa fortificazione della propria supply chain.

Note


  1. The Concept of Resilience, Understanding its Origins, Meaning and Utility, Alastair McAslan, marzo 2010 ↩︎

  2. Negative Knowledge in Supply Chain, Joannes Vermorel, marzo 2021 ↩︎ ↩︎

  3. La stagionalità può portare a grandi variazioni di attività per l’azienda, ma tali variazioni possono essere anticipate con precisione grazie alla natura ciclica del fenomeno. ↩︎

  4. L’ottimizzazione stocastica si riferisce a una serie di metodi per minimizzare o massimizzare una funzione obiettivo quando è presente casualità. Questo concetto viene introdotto in opposizione all’“ottimizzazione deterministica” che assume che non vi sia alcuna casualità coinvolta nella funzione di perdita. ↩︎

  5. La RATP assegna un bonus annuale di 1 200 euro ai dirigenti volontari per guidare durante gli scioperi, Rodolphe Helderlé, Miroir Social, agosto 2011 ↩︎

  6. L’industria automobilistica è l’archetipo delle industrie dei primi del Novecento, dove i produttori iniziarono con un’ampia integrazione verticale ma, verso la fine dello stesso secolo, avevano gradualmente esternalizzato gran parte della loro produzione ai fornitori (poiché questi ultimi li superavano notevolmente dal punto di vista dei costi). Anche l’industria dell’aviazione e quella della produzione di personal computer hanno subito trasformazioni simili. ↩︎

  7. Adversarial market research for enterprise software, Joannes Vermorel, marzo 2021 ↩︎

  8. È del tutto possibile che tali soluzioni possano essere desiderabili per motivi che non hanno nulla a che fare con la resilienza. ↩︎

  9. La resilienza, pur essendo desiderabile, non è un obiettivo in sé. Ad esempio, i Venture Capitalists (VCs) di solito tendono fortemente verso l’opposto: diventa grande o muori nel tentativo. Questo approccio favorisce opzioni che migliorano l’efficienza dell’azienda, aumentando così il suo potenziale di diventare un enorme successo, a scapito delle sue probabilità di sopravvivenza. ↩︎

  10. Far sì che esperti umani elaborino una ricetta numerica per rendere una supply chain più resiliente a un eventuale shock è una proposta abbastanza ragionevole. Tuttavia, qualificare tale ricetta numerica come un costrutto “AI” è un’esagerazione, e non riflette il tipo di tecniche e algoritmi che solitamente rientrano nella categoria AI al giorno d’oggi. ↩︎

  11. Antifragile: Things That Gain from Disorder, Nassim Nicholas Taleb, novembre 2012 ↩︎

  12. Le previsioni a punto di serie temporali, lo stock di sicurezza e l’analisi ABC sono esempi notevoli di ciò che potrebbe essere considerata la visione dominante della supply chain. ↩︎

  13. Supply chain resilience requires bandwidth, Joannes Vermorel, dicembre 2022 ↩︎